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Beni confiscati alla mafia, l’ex procuratore nazionale Roberti: “Investimenti per completare il percorso”

24/07/2020

I casi di Agrorinasce in Campania e del Consorzio “Sviluppo e Legalità” in Sicilia, presentati nel precedente articolo, rappresentano virtuosamente le potenzialità dei processi di recupero e gestione dei beni confiscati alle mafie. Nel nostro Paese tuttavia, sebbene la legislazione si trovi a uno stadio di evoluzione avanzato, ancora non si può definire ottimale l’habitat per avvalersi al meglio, a beneficio dei territori, dello strumento della confisca. E’ l’estrema sintesi dell’analisi di Franco Roberti, che dal 2013 al 2017 ha ricoperto il ruolo di Procuratore nazionale antimafia. Rispondendo ad alcune domande Roberti, oggi parlamentare europeo, tira le fila di un percorso che si snoda in parallelo a quello dell’adeguamento progressivo della legislazione antimafia nazionale.

Si può dire che tutto ebbe inizio dal 1982, “dall’intuizione di Pio La Torre, che la pagò con la vita. La legge Rognoni – La Torre stabilì il sequestro e la confisca dei beni alla mafia, come misura di prevenzione patrimoniale”. Non si prevedeva ancora la gestione, infatti, ricorda Roberti, si può che dire che la compiutezza della legislazione attuale “si formi solo nel 1996, quando anche grazie al meritorio impulso dell’associazione Libera si capì che per contrastare efficacemente le mafie non era sufficiente la risposta militare, ma occorreva completare il livello patrimoniale. Quindi la sottrazione dei beni alla mafia si integrò con la restituzione di questi alla collettività. Un altro importante passo arrivò nel 2010, quando nacque l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, che acquisì un ruolo fondamentale. Fino ad allora infatti i beni confiscati erano assegnati all’Agenzia del Demanio, che non garantiva le necessarie capacità di gestione. Quella dell’istituzione dell’Agenzia è stata anche un’ulteriore misura di prevenzione: il mafioso infatti, una volta subita la confisca, tendeva a recuperare il bene, magari attraverso società di comodo o prestanome”. La normativa attuale consente infatti anche la vendita del bene confiscato, ma è una scelta da adottarsi come extrema ratio e con le cautele necessarie a impedire che il bene ritorni nelle mani del mafioso.

All’istituzione dell’Agenzia nel 2010 fecero seguito altri interventi normativi, tanto che oggi si può riscontrare quella che l’ex procuratore nazionale antimafia definisce “una legislazione completa. Quello che manca, in buona parte, è l’organizzazione per fare funzionare l’Agenzia, assieme alle necessarie risorse ed a un organico adeguato”.

Quello del recupero e della gestione dei beni confiscati è infatti un processo molto complesso, che richiede tempo, competenze, energie, risorse. Roberti spiega: “Il punto è che per destinare utilmente i beni sottratti alle mafie questi vanno portati in condizioni di legalità. Penso agli immobili abusivi, o ai dipendenti che lavoravano in nero: casi piuttosto frequenti. Occorre investire su questi processi e queste operazioni, perché si tratta grandi occasioni per i territori, che possono unire sviluppo e legalità. Non mancano naturalmente casi virtuosi in questa generale situazione di ristrettezze finanziarie”, ma senza risorse si rischia di rendere ad essi la vita difficile. Il caso di Agrorinasce, del complesso agricolo La Balzana Roberti naturalmente lo conosce bene, e ricorda che per poterlo avviare “abbiamo dovuto combattere per anni”.

Un contributo decisivo può arrivare dalle Regioni. Il caso esemplare qui è costituito dalla Campania, che nel 2012 approvò una legge sui beni confiscati, che lo stesso Roberti nella sua esperienza da assessore successivamente rivitalizzò. Ora chiarisce: “Purtroppo non ce ne sono altre che dettaglino la legge nazionale del 1996. Le leggi regionali sono necessarie: attraverso questi strumenti le Regioni possono stanziare fondi, emanare bandi, far concorrere i Comuni”.   

La strada passa dunque per un investimento convinto sull’Agenzia nazionale e per l’approvazione delle leggi regionali. Si tratta di operazioni che se condotte in porto potrebbero anche incentivare un altro processo, anch’esso decisivo, ovvero la generale formazione, nel sistema Paese, di competenze e professionalità per la gestione dei beni confiscati, su cui già oggi i corsi universitari già stanno dando delle risposte. Per Roberti “è un sistema che va messo in funzione. Serve la volontà politica di investire in sviluppo e legalità”.

Il bacino è enorme: si pensi solo che sono circa 2000 le aziende confiscate alle mafie, senza contare i beni, gli immobili, i terreni. Una ricchezza che può tornare alla collettività e, nel segno dell’esempio della legalità, dare sviluppo e lavoro. La considerazione finale di Franco Roberti è anche da europarlamentare, proprio nei giorni in cui in seno all’Unione europea è arrivato l’accordo sul funzionamento e l’entità del fondo per la ripartenza dopo la crisi generata dalla pandemia: si può immaginare che una “linea” di quelle ingenti risorse “atterri” su questo capitolo?

 

Andrea Scarchilli – Ufficio stampa Istituto Nazionale di Urbanistica

 

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