30/04/2020
Le crisi generano opportunità, recita l’adagio. Perfino la pandemia? Stando agli stimoli emersi nel dibattito di questi giorni, per le aree interne ce ne sono. Alcuni grandi nomi dell’architettura hanno segnalato che il distanziamento sociale, destinato a mantenersi con strascichi ed effetti di medio e lungo termine, potrebbe portare in auge i borghi dell’Italia alpina ed appenninica. E’ cominciata la riscossa delle aree interne? E’ possibile immaginare delle strategie di stimolo, che trasformino lo spopolamento in ripopolamento?
Pierluigi Properzi, responsabile scientifico del Rapporto dal Territorio e membro del Consiglio direttivo nazionale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, ha vissuto da vicino in quanto aquilano il terremoto del 2009 e anche quello che nel 2016 e 2017 in più riprese ha colpito una vasta area dell’Italia centrale. Individua analogie con la crisi attuale: “Come il terremoto, anche il coronavirus è un fattore di accelerazione, nel senso che fa emergere situazioni critiche che preesistevano”. Properzi non pensa che il coronavirus, come molti profetizzano, cambierà in senso arcadico il modo di vita della nostra società; mentre saranno pesantissimi gli effetti sull’economia del Paese. Questo implicherà un diverso senso del fare urbanistica: si lavorerà solo su alcuni contesti, quelli emergenti, e con prassi sperimentali abbandonando le grandi narrazioni. Occorrerà quindi fare tesoro di alcune esperienze che sono state, per le aree interne, positive. La Strategia nazionale, pur con i suoi limiti, ha fatto emergere alcuni esperimenti interessanti, come quello in Abruzzo dell’area del Sangro Aventino, tutta giocato sulla territorializzazione della sanità. Questo è uno stimolo da prendere in considerazione, il grande piano sanitario che sarà necessario per la ripartenza dovrà avere attenzione per le aree interne. In generale, spiega Properzi, “servono progetti territoriali forti in cui i servizi (come quelli che riguardano oltre alla salute la mobilità e la sicurezza del territorio) siano alla base di tutto. Un secondo campo di attività sarà coniugare pubblico e privato in un nuovo modo. Non si può sperare che siccome ci sono molte case inoccupate ci si incominci automaticamente a trasferire nelle aree interne. Vanno coinvolti grandi operatori, pubblici e privati, in piccoli progetti, mirati. Il ruolo del pubblico deve essere quello di garantire la sanità, l’accessibilità e la sicurezza. Poi c’è la questione del capitale umano, senza cui è inimmaginabile pensare a una ripartenza: le cooperative di comunità possono essere un modo per garantire servizi che possono sembrare banali, ma in realtà sono essenziali, come le riparazioni. Il cittadino deve sapere che se un termosifone va in panne, può contare sulla possibilità di un intervento. Ma il capitale umano è anche necessario alla costruzione di progetti e all’alimentazione della conoscenza: questo apre un nuovo ruolo per l’Inu”.
Anche l’architetto Marco Morante è aquilano: si è occupato di piani e progetti per la ricostruzione dell’Aquila e del suo territorio, con interessi di ricerca incentrati sull’Appennino abruzzese. Spiega, citando l’intervista di Stefano Boeri, che è “un’opportunità per ragionare della questione della possibile rivitalizzazione delle aree interne. Ritengo interessante in particolare il concetto di patto, lo scambio di sussidi e servizi tra aree interne e aree urbane. Tra l’altro, stando come esempio all’area abruzzese, questo dibattito e questa situazione potrebbero rappresentare anche l’occasione per definire l’estensione e la natura delle aree metropolitane, in senso lato, che tengano assieme le aree urbane e le grandi aree naturalistiche”. Nel caso della vasta area che da Roma porta alla costa adriatica, Morante cita il sistema delle Autostrade dei Parchi come infrastruttura di riferimento e collegamento di attrazioni e ricchezze come i parchi appenninici, i borghi, le città d’arte. Conurbazione a Y (per la struttura del tracciato) che fa il paio e ricorda quella della Randstad Holland che gira ad anello attorno ai Paesi Bassi, circondando una grande area naturalistica. L’architetto considera comunque la fase di transizione che stiamo attraversando carica di opportunità, tanto da riuscire a teorizzare il possibile passaggio dal policentrismo al multicentrismo: in estrema sintesi, da un sistema caratterizzato dalla sovrapposizione di centri che replicano gli stessi servizi in rivalità tra loro (retaggio dei Comuni medievali) all’accorpamento e alla condivisione di servizi tra centri vicini, producendo moltiplicazione di effetti. Conclude: “A patto che siano garantite tre condizioni di base: più servizi essenziali, più residenzialità che ricettività e più spazi pubblici in sicurezza”.
Domenico Passarelli è il presidente della sezione Calabria dell’Inu. Nelle iniziative e nel lavoro sul territorio ha sempre riservato un’attenzione particolare alle aree interne. Oggi ci tiene a sottolineare che “non è che ci fosse bisogno di un’epidemia per fare emergenza la ricchezza culturale e storica - paesaggistica delle aree interne, c’è sempre stata. Quello su cui bisogna puntare è naturalmente la ripresa demografica e il riutilizzo del territorio, che costituiscono le precondizioni di una politica di rilancio”. Rispetto alle azioni che possono essere considerate più urgenti da intraprendere, il presidente di Inu Calabria cita “la rigenerazione dei centri storici, intesa non solo dal punto di vista della manutenzione ordinaria, ma anche dal punto di vista della mobilità e dell’accessibilità. Si tratta spesso di luoghi scomodi e di difficile raggiungibilità”. Passarelli poi invita a concentrare l’attenzione sulla “adeguatezza e sulla sufficienza delle dotazioni infrastrutturali e dei servizi essenziali, volti a promuovere attività economiche ecocompatibili correlate con la gestione sostenibile dell’ambiente naturale e delle sue risorse, a beneficio dello sviluppo economico del territorio fluviale: i sistemi produttivi dell’agricoltura sono collegati anche a un’efficace azione di contrasto al dissesto idrogeologico contribuendo a risolvere il problema della sicurezza del territorio, che è uno delle ragioni che spingono ad abbandonare le aree interne, o al non considerarle un’opzione”.
Massimo Sargolini, responsabile della Community dell’Inu “Aree interne”, inquadra la crisi che stiamo vivendo in un ciclo che ha comunque registrato politiche e tentativi che nel tempo hanno guardato alle opportunità di rilancio delle aree interne. Da ultima la Strategia nazionale, ma questa ha seguito una politica delle aree protette che si è sviluppata già dalla legge del 1991. “Oggi – spiega Sargolini – siamo di fronte a un disastro naturale di tipo biologico, di cui ancora non conosciamo con precisione le dimensioni. Gli spazi abbandonati, o a bassa densità, lontani dalle grandi conurbazioni, ridiventano oggetto di desiderio, e lo si capisce anche dai tentativi dei cittadini di raggiungere le seconde case, che spesso si trovano in zone montane”. Il tema per il responsabile della Community dell’Inu è “capire come queste aree possano essere realmente abitate: un discorso è la spinta determinata dell’emozione e dalla preoccupazione, simile a quella che spinse molti cittadini americani dopo l’11 settembre 2001 a riversarsi nei parchi naturalistici, un altro è la possibilità di sviluppare progetti di vita. Il patrimonio delle aree interne è straordinario, si tratta in molti casi di centri che sono stati capaci di originare culture in grado di dare senso agli spazi”. Questioni vanno affrontate, spiega Sargolini, come la difficoltà di connessione, la mobilità, i modi migliori di mettere in piedi economie funzionali a nuovi mercati su cui spesso gli specialisti non si concentrano, economie basate sulla circolarità, estremamente “tagliata” per territori con enormi risorse naturali e agronomiche. In conclusione ancora non si riscontra “l’attenzione necessaria alla rinascita reale di questi luoghi, che non può che passare anche dalla riorganizzazione degli spazi e delle modalità del vivere”.
Andrea Scarchilli – Ufficio stampa Istituto Nazionale di Urbanistica