INUCOMUNICA

I cinquant'anni delle Regioni

16/05/2020

Compie cinquant’anni, oggi, la legge 281 del 16 maggio 1970 con cui si è dato avvio al processo di decentramento amministrativo in Italia previsto dagli articoli 5 e 118 della Costituzione italiana che istituì le Regioni italiane, attuando il “regionalismo”. Una forma di Stato nazionale che rappresenta una peculiarità italiana di cui alcune caratteristiche e limiti sono venuti prepotentemente in evidenza  in questa fase di gravissima emergenza sanitaria pandemica, segnata dall’aspra dialettica tra Stato centrale, Regioni e territori. Sulla storia delle Regioni e del regionalismo nel nostro Paese l’intervista è a Carlo Alberto Barbieri, presidente della sezione Piemonte e Valle d’Aosta e membro del Consiglio direttivo nazionale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, componente del Consiglio superiore dei lavori pubblici dal 2016 al 2020, già professore ordinario di urbanistica del Politecnico di Torino.

Innanzitutto: dove nasce il regionalismo italiano?

Direttamente dalla nostra Assemblea costituente, che fece una scelta originale, diversa dal federalismo tedesco o americano. Non c’è un modello di riferimento in tutto simile a quello italiano. Di fatto si optò per uno Stato centrale, che riconosceva allo stesso tempo il valore dell’unità nazionale, l’importanza del decentramento e la diversità dei territori.

Passerà del tempo, tuttavia, prima che quella scelta diventasse concreta.

Proprio così, sarà nel 1970, quindi ci vollero ben 22 anni. Si tratta di un’attesa che ha naturalmente delle ragioni. Il Paese usciva a pezzi da una guerra che si era combattuta anche sul suo territorio. Era concentrato sulla ricostruzione, la ripresa, lo sviluppo, la modernizzazione e la classe politica non percepiva che l’istituzione delle Regioni fosse una necessità urgente. Era come se ci si dicesse: “Andiamo di fretta, abbiamo altro a cui pensare, non possiamo perdere tempo ‘diluendo’ (col rischio di indebolirne il potere) lo Stato nelle Regioni, vedremo più avanti”.

Una “non scelta” di cui non poté che risentire, allora, il quadro della pianificazione territoriale.

In quegli anni di immediato dopoguerra la pianificazione territoriale e urbanistica sono sostanzialmente “sospese”. La legge urbanistica nazionale è quella del 1942, pensata nell’ambito di un’altra forma di Stato. Essa prevedeva piani territoriali di coordinamento in capo allo Stato, che si guarderà dal fare, temendo che la pianificazione ostacolasse la crescita e l’esprimersi delle forze economiche del Boom. Lo Stato non pianifica il territorio e la pianificazione urbanistica non è obbligatoria. Questo fino all’arrivo della “legge ponte”, nel 1967, che vieta il rilascio di licenze edilizie in assenza di uno strumento urbanistico generale, ovvero piani regolatori o almeno programmi di fabbricazione. La pianificazione di area vasta, in capo allo Stato, è assente.  

Il ritardo con cui nacquero le Regioni, quindi, è in realtà frutto di una scelta precisa, la convinzione che in quella fase storica, molto semplicemente, non servissero?

Questo elemento è presente. Ce ne sono naturalmente altri più politici. In molti casi la pressione a istituire le Regioni fa parte di una spinta autonomistica dei territori, che diventò prevalentemente appannaggio della sinistra. Per cui questa battaglia, “colorandosi” di sinistra, in particolare da parte del Partito comunista, non acquisisce per così dire buona fama presso i partiti di governo. Non è un caso che le Regioni arrivano nel 1970, al culmine di una fase di cambiamento politico, culturale e socio - economico e che vedeva da alcuni  anni il Partito socialista nell’area di governo. Anche il Psi infatti ne chiedeva l’istituzione.

Si arriva quindi, esattamente cinquant’anni fa, alla nascita delle Regioni. Che tipo di esordio hanno questi anni nuovi enti?

Cominciamo con il dire per il Paese fu un po’ uno choc. Non c’era l’abitudine nemmeno a considerare quel livello istituzionale, ma d’altra parte c’è da dire che esse rappresentano in maniera percepita  le identità e le differenze del Paese. Insomma le regioni, come territori, sono ben presenti nell’immaginario degli italiani. La curiosità è grande, ci si chiede: che faranno, come opereranno? La prima fase, che potremmo definire fondativa, è interlocutoria, perché i poteri nella loro completezza arriveranno solo sette anni dopo (in attuazione della legge 382 del 1975 e soprattutto con il Dpr 616/1977), compresa l’amministrazione dell’urbanistica, ovvero la responsabilità di legiferare in materia di pianificazione e di approvare i piani regolatori. Si tratta in ogni caso di sette anni di grandi cambiamenti, che coincidono con la crescita elettorale della sinistra, in particolare del Pci, che arriva al potere (con il Psi) anche in molte Regioni oltre che importanti città italiane, con il risultato che i nuovi enti, la loro storia agli esordi, acquisiscono una forte connotazione politica, direi quasi a voler proporre un modello diverso di governo rispetto al centrismo politico (intorno alla DC) dello Stato. Soprattutto le Regioni di sinistra vogliono segnare l’originalità rispetto a un’istituzione governativa, a uno Stato oggetto di molte critiche e disfunzioni burocratiche. E’ una fase di entusiasmo e le Regioni puntano a fare emergere l’importanza della pianificazione e della programmazione di fronte a uno Stato che, come detto, non le ha mai praticate e le vede con diffidenza. E’ proprio con le Regioni che l’Italia conosce la pianificazione territoriale e il rilancio di quella urbanistica, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, e sono le Regioni di sinistra a trainare questo processo. Faccio l’esempio del Piemonte di Giovanni Astengo, autorevole assessore all’urbanistica nella II legislatura, ma ce ne sono anche altre: le Regioni partono dalla legge ponte del 1967, se ne fanno forti, la dilatano; si dotano di leggi urbanistiche ed impongono la pianificazione locale ed intercomunale.

E’ l’età dell’oro delle Regioni?

In realtà l’entusiasmo viene in qualche modo spento, perché lo Stato con una mano dà, con l’altra toglie. Il 1972 è l’anno dell’approvazione della riforma fiscale che rappresenta per le Regioni una doccia gelata. E’ una riforma fortemente accentratrice, che subordina la concessione delle risorse alle Regioni a trasferimenti annuali, faticosi ed incerti fino all’ultimo. Ma questo contrasta con le caratteristiche della programmazione, che ha bisogno invece per definizione di un flusso certo e continuo di risorse da appunto programmare e ‘spazializzare’ con la pianificazione. All’entusiasmo quindi fa seguito la delusione, emerge la percezione che pianificare è faticoso e viene percepito come limitazione all’autonomia comunale, programmare è praticamente impossibile: di fatto le Regioni ci riusciranno solo con i fondi Gescal per l’edilizia pubblica ed il piano decennale della legge 457 del 1978, perché il resto se lo tiene lo Stato. E’ l’implosione della pianificazione territoriale, le Regioni perdono credibilità ed efficacia, e in un certo senso anche “appeal” politico.

Quanto bisognerà aspettare per annotare altri cambiamenti significativi?

Importante è quanto accade all’inizio degli anni Novanta, è inevitabile che quello che esplode nel Paese abbia un’influenza sulle Regioni. Esplode il consenso attorno ai nuovi sistemi elettorali, di tipo maggioritario e con il diretto coinvolgimento degli elettori nelle scelte, ma di questo consenso ne beneficia soprattutto la figura del sindaco. Il risultato è che lo Stato è interessato ad instaurare canali diretti con le città, a discapito delle Regioni. Finiscono i fondi Gescal. La riforma delle autonomie del 1990 valorizza città e province, ma le Regioni vi figurano un modo marginale. Queste avevano provato a uscire dal guado attraverso i piani comprensoriali, predisposti “dal basso” per formare il  piano territoriale regionale. Ma la legge del 1990 annulla completamente queste procedure, valorizzando le Province e attribuendo ad esse una loro pianificazione territoriale di coordinamento. Le Regioni, insomma, perdono il “centro della scena” a discapito di altri livelli istituzionali della pianificazione e accentueranno su di sé il controllo della pianificazione delle Province e dei Comuni.

Proprio in quegli anni arriva, al Congresso di Bologna del 1995, la proposta dell’INU, in cui le Regioni hanno di nuovo un ruolo centrale.

Sì, si trattava di una proposta a più livelli. Si prendeva atto dell’esaurimento della spinta propulsiva dell’estensione e innovazione della legge ponte del 1967 mediante le leggi regionali, e si chiedeva che lo Stato si facesse carico di definire nuove regole e principi fondamentali per il governo del territorio. Era una fase di ridefinizione e cambiamento: le risorse pubbliche erano poche, espropriare era difficile, i rapporti con i privati erano perlopiù da sperimentare, fu lanciato come principio e metodo quello della perequazione urbanistica e territoriale. L’INU propose anche  l’innovazione del piano regolatore con la suddivisione tra piano operativo e piano strutturale, una proposta che ebbe successo. Coincise con il rilancio della pianificazione. Nel frattempo le Regioni tornavano ad essere centrali, da un punto di vista politico. Alla fine degli anni Novanta si cercava di trovare un sostenibile “federalismo amministrativo” e ad assumere in qualche modo il principio di sussidiarietà del Trattato di Maastricht.

In che modo le Regioni recuperarono centralità politica?

Nasceva nel Paese una  spinta per così dire iperautonomista di cui si fece interprete la Lega Nord. Portò alle leggi Bassanini del 1997 e 1998, in chiave di federalismo amministrativo, e poi alla riforma costituzionale del Titolo V, nel 2001. Aumenta lo spazio delle Regioni a discapito dello Stato, nasce un  “regionalismo rinforzato” e una certa forma di sussidiarietà. Il governo del territorio è tra le 19 materie concorrenti, in capo alle leggi delle Regioni ma previe leggi di principio fatte dallo Stato. E’ una svolta, le Regioni ne sono fortemente rilanciate.

Ma emergono le contraddizioni.

Dal 2001 a oggi lo Stato non ha fatto nemmeno una delle citate necessarie leggi di principi, tendendo invece a invadere il campo delle Regioni oltre le proprie materie di competenza legislativa esclusiva, come nel caso di alcuni provvedimenti che riguardano ad esempio l’edilizia. D’altra parte alcune Regioni e forze politiche (di centrodestra) interpretano il Titolo V in chiave federalista, e provano a impostare la riforma della cosiddetta devolution. Ma un referendum costituzionale la boccia.

Il resto è storia recente, e cronaca.

Il Governo Renzi prova ad approvare una riforma di tipo neocentralista del Titolo V (e non solo di questa parte della Costituzione), connotata da una forte critica al regionalismo così come interpretato dalle Regioni (in questa fase come intimorite e un po’ passive al riguardo), ma il referendum la boccia (esprimendosi forse più su Renzi che sul Titolo V). Le Regioni è come se vincessero una battaglia che di fatto non hanno davvero combattuto. Alcune di esse, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, rilanciano con forza la richiesta di “autonomie differenziate”, prevista dall’art. 116 dl Titolo V del 2001 (che è rimasto tale). Altre Regioni seguono, a partire dal 2016, queste pressioni sullo Stato e il Governo. Proprio mentre il ministro Boccia del II Governo Conte stava tentando di rimettere assieme i pezzi dei conflitti, forzature ed incomprensioni in merito (politici, territoriali, tecnico-giuridici, economico-fiscali) e degli scontri che hanno riguardato i componenti della maggioranza precedente (il I governo Conte), le Regioni del Nord e del Sud, scoppia, come un tragico “cigno nero”, l’emergenza sanitaria e socio-economica della pandemia. Ritengo che potrebbe lasciare il segno anche nella storia e nell’evoluzione del regionalismo. Abbiamo vissuto in queste settimane da una parte una forte iniziativa accentratrice dello Stato, dall’altra la circostanza di alcune Regioni additate come responsabili di gravi problemi in un campo, come quello della sanità, che assieme al fisco è quello dove si rivendicava maggiormente l’autonomia. Serviranno però riflessioni, comportamenti e decisioni, idee ben ponderate in merito: ce lo dobbiamo augurare.

 

 Andrea Scarchilli - Ufficio stampa Istituto Nazionale di Urbanistica